
In un mondo dominato dal capitalismo e dal consumismo, è inevitabile ritrovarsi intrappolati nelle grinfie della società performativa: bisogna sempre essere sul pezzo, eccellere nei risultati, come se il fallimento non fosse concepito.
Come spiega il filosofo francese Guy Debord nel libro “La società dello spettacolo” (1967), “le persone si identificano con le immagini prodotte dalla cultura di massa e si alienano dalla propria realtà”: nessuno infatti mira più ad essere realmente se stesso ma siamo costantemente mossi dall’obbligo di performare, di (letteralmente) “dare forma” a ciò che siamo, soddisfando però le aspettative che amici, conoscenti, colleghi e familiari ripongono in noi. In una realtà dove si punta sempre più all’apparire perfetti (basti pensare all’uso dei filtri disponibili sulle piattaforme social) non si lascia spazio all’errore e si tende a sentirsi in potere di criticare e giudicare l’agire di ognuno, dimenticando però che siamo esseri umani. Citando i filosofi Maura Gancitano e Andrea Colamedici: “il nostro lavoro -quello di performare- diventa a tempo pieno e siamo di conseguenza immessi in un sistema dove confronto e competitività sono all’ordine del giorno.”
Sicuramente possiamo affermare che i nuovi dispositivi tecnologici hanno portato molti vantaggi come l’interconnessione e la diffusione rapida su scala globale delle informazioni, così come la società della performance che in una qualche maniera induce gli individui a dare sempre il meglio di sé (almeno all’apparenza); tuttavia, ritengo che l’uso costante dei social media spinga sempre più generazioni verso il fallimento che tanto si vuole rendere inammissibile.
Come già accennato, l’Occidente è ormai assoggettato al Dio Denaro, alla prospettiva di guadagno e all’accumulo, il che porta gli uomini non solo a confrontarsi giornalmente con gli altri per primeggiare (e come si può evincere è un confronto malato che, come dice Kierkegaard, ci allontana dalla nostra essenza causando un impoverimento dell’individualità) ma obbliga al completamento di più mansioni e obiettivi al giorno per essere al passo con la nuova società dell’immediatezza. Possiamo affermare a riguardo che i lavoratori vengano strumentalizzati e trasformati in consumatori e che il loro tempo libero sia pertanto colonizzato dal consumo ma soprattutto che, a causa dei social e dei milioni di contenuti che un utente può scorrere sul proprio smartphone, ci si abitui ad un “vivere veloce”, senza soffermarsi sul nulla.
Avete mai riflettuto sulla recente introduzione di poter ascoltare in velocità 2x un audio su WhatsApp? Certo, non parliamo di “società veloce” per un audio o un video velocizzato ma ritengo che a suo modo possa essere un sintomo di quanto l’umanità stia perdendo la capacità di mantenere la concentrazione seppur per solamente pochi secondi e di dedicarsi pienamente ad una attività che a suo modo richiede tempo. La conseguenza inevitabile dunque è il non saper più vivere lentamente, il non riuscire più a compiere azioni semplici che richiedono una certa profondità: come spiega a riguardo la pagina Instagram di Geopop, stiamo diventando incapaci di apprezzare il silenzio -non solo tra le parole di un audio- ma nella vita: un’azione lenta diventa a sua volta noiosa e, inevitabilmente, si trovano stratagemmi per renderla rapida (basti pensare a quante volte i nostri professori ci hanno ripetuto di non scaricare le versioni di greco e latino da Internet o, talvolta, di non usare le nuove tecnologie di intelligenza artificiale per scrivere un tema o risolvere complicati quesiti di matematica! Il motivo è sotto gli occhi di tutti: nessuno vorrebbe trascorrere due o tre lunghe ore con un vocabolario tra le mani provando in tutti i modi a dare un senso ad un testo antico, quando lo si ha già a portata di qualche click).
É importante ricollegarsi alla questione del consumismo: la società dell’immediatezza, unita a quella performativa, consumistica e capitalistica, fa sì che non ci si soffermi più sulla qualità di un prodotto, ma, al contrario, sulla quantità, l’accumulo e il progresso.
Un altro aspetto è l’iper-valutabilità che finisce per alimentare aspettative ossessive e dannose non solo riguardo il lavoro ma persino la nostra vita sociale, per cui si ritiene che ogni relazione interpersonale debba essere funzionale e non uno spreco di tempo. La loro qualità si basa esclusivamente sulla utilità che hanno, i vantaggi che si possono trarre,perdendo anche in questo l’aspetto dell’autenticità.
É per tutto ciò che Jean-Paul Galibert ha parlato nel suo libro per la prima volta di cronofagia: “ogni momento risulta ormai legato alla produttività e monetizzato, anche quando non siamo impegnati in attività lavorative,infatti, siamo impegnati nella navigazione su Internet che porta un profitto a qualcuno.”
Pertanto la società della performance è una società in cui tutto ruota intorno al profitto senza considerare che questa velocità porterà ad una autodistruzione della stessa umanità, se non impariamo a vivere nuovamente lentamente. Come disse Rupert Murdoch, uno dei più grandi editori del XX secolo, durante un suo intervento al “World Economic Forum” di Davos nel 2013, “il mondo sta cambiando rapidamente: non sarà più il grande a vincere sul piccolo, ma sarà il veloce a battere il lento.”
Francesca Di Maio
Fotografia realizzata da Christian Battaglia





